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CONTARE PER DAVVERO

4. Mariapia Veladiano

Stamattina ho passato, da noi si dice così, ho passato velocemente il bagno, dopo che gli altri

erano usciti, chi a scuola chi al lavoro, come sempre. Ci ho messo più o meno dieci minuti,

come sempre. Io faccio i conti in azienda, sono capufficio in uno studio di commercialisti.

Faccio i conti benissimo. Stamattina mi sono seduta sul bordo della vasca da bagno e, non so

perché, ho fatto i conti. Dieci minuti al giorno per trenta giorni uguale trecento minuti al

mese uguale cinque ore al mese, uguale sessanta ore all’anno uguale seicento ore in dieci anni

e dal momento che lo faccio da trent’anni uguale milleottocento ore in trent’anni. Uguale

settantacinque giorni giusti giusti, due mesi e mezzo della mia vita ho fatto quel lavoro

invisibile al mondo che consiste nel lasciare il bagno degno, al minimo degno, di essere usato,

dopo, quando gli altri tornano.

Poi mi sono alzata, ho tolto i guanti, ho dato un colpo di spazzola ai capelli, in piedi davanti

allo specchio, e sono andata al lavoro.


Come avevo ben immaginato, quella mattinata era angosciosamente fredda: avevo calcolato la probabilità

che lo fosse la sera prima. Dato che il vento sferzava l’aria con una velocità di ventidue chilometri orari e la

pressione era di mille e dodici pascal, avevo concluso che non si sarebbe dimostrata una delle migliori.

Ricordo di aver visto una moltitudine di colori, attraversando quel viale: le foglie, eccetto quelle cadute per

terra, giacevano pigramente sui rami, mostrando a chi alzava lo sguardo tutte le sfumature del giallo e del

verde, tipiche dell’autunno. “Basta osservare”, dicevo tra me e me. D’altronde, l’osservazione è sempre

stata una delle qualità imprescindibili del mio lavoro: c’è chi è nato con quel dono, chi deve fare uno sforzo

per acquisirlo, e chi ancora ne è privo. Per fortuna o per disgrazia, i miei geni mi avevano fatto questo dono.

Osservare, quindi, costituisce gran parte della mia giornata: otto ore, quattrocentottanta minuti o

ventottomila e ottocento secondi. Scegliete voi come classificarli. Osservo le persone, i numeri, tutto ciò

che passa sotto i miei occhi. Scruto, squadro, sostengo lo sguardo silenziosamente, finché non lo devio

verso l’azienda.

Al lavoro Grace mi ha accolta con il mio solito caffè: ottanta millilitri di pura gioia, a mio parere. Giro a

destra, a sinistra, di nuovo a sinistra, ed ecco che sono arrivata nel mio ufficio: la vista da qui è spettacolare,

ma la mia mente è concentrata sugli impegni della giornata. Primo, l’incontro con il cliente alle otto ore e

quarantacinque minuti: conoscendolo, arriverà dopo mille e cinquecento secondi, tenendo saldamente in

mano la borsetta di Louis Vuitton di tremila euro e indossando i tacchi di Jimmy Choo della scorsa stagione,

i suoi preferiti. Mille e ottocento euro, se non sbaglio. Ho già detto che osservo molto la gente? In ogni

caso, le mie previsioni sono accurate, e in un baleno la giovane donna è nervosamente appoggiata con i

gomiti sul tavolo, discutendo con me di calcoli vari. Seguono conferenze, interviste fatte e sostenute,

imprevisti previsti e milioni di conti. A fine giornata, mi accascio sulla sedia quasi buttandomi: la sensazione

di spossatezza che mi invade è dappertutto. Gambe, testa, braccia, dita, sono tutte incluse in un valzer

stanco e soporifero. Ma è anche l’unico momento che ho per pensare, e la mia testa da trentenne non

aspetta altro. Mi giro lentamente, utilizzando quelle poche forze che ho per guardare i fiocchi di neve che si

rincorrono; i bambini fanno lo stesso, nel vano tentativo di acchiapparli, e le mie labbra si piegano in una

curva sorridente.


I numeri hanno sempre fatto parte della mia esistenza, sin da quando ero bambina: mamma mi insegnava

sempre che ognuno è uno scrigno contenente un tesoro. Insieme, sono la più grande meraviglia della vita.

Da quando ho memoria, il pi greco, il sigma e i logaritmi sono stati i miei più grandi amici: ci giocavo, li

toccavo, li sentivo vivi essi stessi. Non avrei mai immaginato che sarebbero diventati la mia, di vita.

Adesso che dirigo uno studio di commercialisti, avere degli amici con me non mi dispiace affatto: è come

fare una passeggiata in un parco, con una persona che ti sorride e ti prende a braccetto, sussurrandoti che

ti starà accanto sempre, nel bene e nel male, finché quel parco non sarà diventato un mucchio di cenere. I

numeri mi facevano (e mi fanno) sentire così. Libera e spensierata, da un lato; coscienziosa e prudente,

dall’altro. Ti avvolgono senza soffocarti, in una serafica sequenza di zeri e uni che non confonde, anzi,

chiarisce. È per questo che mi incuriosiscono le tecnologie: due semplici numeri che aprono un mondo non

possono essere considerati una cosa scontata, né tantomeno compresa appieno. Ma se e quando li

capiremo, saremo abbastanza umani per utilizzarli a nostro favore? Oppure diverremo il contrario, assorbiti

da qualcosa che non riusciamo a gestire? Questo è il tipo di domande che mi pongo su questa sedia, nel

mio ufficio. Domande senza risposta, risposte senza domanda. Io, però, mi affido ai numeri.

Forse sono loro che mi hanno salvata, chi sa mai. La mamma morì quando avevo centoquarantaquattro

mesi: al mio dodicesimo compleanno, la leucemia ebbe la meglio su di lei, sui suoi successi ed i suoi

interessi. Fu la notte peggiore della mia vita: un undici luglio tinto di dolore e frustrazione, di un caldo

soffocante. La mia persona respirava affannosamente, con le labbra schiuse nell’intento di catturare

quell’ultimo respiro. La linea del monitor ultra parametrico che rimane dritta, la mano della mamma che

diventa progressivamente più fredda: è tutto molto veloce, fidatevi. Uno non se ne accorge nemmeno, una

altro esala il suo ultimo soffio vitale. Intanto, i numeri implodono dentro di me. La chiamano, la implorano

di restare, e io non faccio altro che seguire il loro esempio. “Mamma, mi senti? Rispondi, mamma, rispondi!

Mi senti? Sei il mio infinito, mamma, capito? Tu sei eterna…”

Mi rialzo dalla sedia di cuoio scuro. Affannosamente, devo ammettere. “Basta pensare”, mi impongo. Ma

non ci riesco, e mentre prendo la borsa e mi avvio verso l’uscita, rifletto sul fatto che la sua memoria

rimane nella mia, i suoi ricordi sono racchiusi nel mio silenzio. O quasi, perché mia madre si chiamava

Cartwright. Dame Mary Lucy Cartwright, per l’esattezza.

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