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"IN BILICO"

  • Sara Altafaj Cotrufo 3B
  • 9 nov 2021
  • Tempo di lettura: 1 min

Aggiornamento: 16 nov 2021

Ci lascio un pezzo di me. Uno alla volta.


Attesa - Cap.1

Sei lettere che sembrano un’infinità. Se ci pensi, è come se racchiudesse tanti momenti diversi della gente: c’è la dolce attesa durante la gravidanza, quella meno gradevole della coda al supermercato o, ancora, quella che preferisco: un lungo viaggio in macchina. Di lunga o breve durata che sia. Solo in quell’occasione riesco a isolarmi, a guardarmi intorno e a capire. A volte tutte e tre le cose insieme, e a volte nessuna.

Oppure l’attesa in ospedale, quella da me (ma non solo me) detestata al di sopra di ogni altra: mi ricordo che da piccola mi costringeva ogni volta a pensare a modi alternativi di passare il tempo. Produttivo per la nostra mente, frustrante per il nostro fisico. Nonostante ciò, riuscivo sempre a colmare quel vuoto che sembrava eterno con piccoli svaghi, tutti generati da una successione di pensieri.

Ommammadevoaspettareancoramezzorauffaaaaamaquandofinisceuhmaguardachebelmobileverdeprovoacercaretuttiiverdidellastanzavediamouhmmmmunoduetrenonosonosetteottoottosimanocenesarannoaltri.

E così via per qualunque altra cosa.

L’attesa, come mia madre mi rammenta sempre, è il momento in cui il nostro cervello si sbizzarrisce di più, portandoci a immaginare cose, esseri o eventi che attraverso la visione di uno schermo vengono dissolti per essere sostituiti da stimoli altamente “ipnotici”. È una tra le fasi che più generano sinapsi (connessioni tra diversi neuroni, le cellule del nostro sistema nervoso), vale a dire che più ci consentono di ricevere, accumulare ed elaborare informazioni a partire dall’esperienza.

Concludendo questa NOIOSA digressione scientifica, vorrei dire che a volte “stare con le mani in mano” non è del tutto negativo, anzi, ci permette soltanto di godere della realtà che ci circonda. E di viverla. In fondo, non siamo umani anche per questo?





 
 
 

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