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UTOPIA

  • 9 gen 2022
  • Tempo di lettura: 8 min

Aggiornamento: 22 gen 2022

Vi siete mai chiesti come sarebbe tornare bambini? Sedersi sul pavimento o sulle sedioline dell'IKEA, con un pezzo di cioccolata in mano e un giocattolo nell’altra… i bambini sono la prova che l’utopia persiste ancora oggi: sono capaci di costruire dal nulla un mondo completamente nuovo e sorprendente, frapponendo, incollando e ritagliando immagini e colori con grande fantasia. Loro spesso li chiamano sogni, e la loro graduale scomparsa nel tempo è ciò che distingue le due generazioni. Ebbene, proprio per non lasciarmi sfuggire questo piacevole “momento” e su consiglio della prof.ssa Vitale, ho deciso di riprendere in mano il mondo che la piccola Sara aveva lasciato in balia delle onde, lontano da un qualsiasi “hic et nunc”...


POIKILIA

Lascio scorrere la penna… sembra quasi surreale; lei scrive, gira, traccia un sentiero talmente lungo e semplice da percorrere che sembra condurmi in un luogo diverso, da usi e costumi ignoti, da gente che non pensa e non parla come me. Come noi. È un’isola, quella che scorgo là in fondo, tra le nubi dense e rossastre del tramonto: le acque che la circondano, calme e silenziose, riflettono gli stessi colori del cielo, illuminato dalla luna ad est e racchiuso sotto la superficie, la stessa superficie che poi la esibisce come un trofeo ai miei, come se fosse un presagio di tutte le meraviglie che troveremo.

Siamo appena sbarcati, e la sabbia sulla spiaggia non è per niente come me la aspettavo: si rivela dura e tagliente, una distesa nera di sassi che sembrano fermarsi poco lontano, a qualche metro da dove ci troviamo adesso. Ognuna di quelle pietrine affilate come lame sembra rappresentare i nostri peccati, e a noi non serve altro che lasciarli andare e abbandonarci a una nuova realtà. In fondo, basta chiudere gli occhi, stringere i denti e superarle.

Naturalmente, l’impresa ci porta via tempo, cadenzato dall’avanzare graduale della luna, come se fosse contagiata anch’essa della serafica essenza che circonda l’isola: si affaccia timidamente nel secondo mare, la luna, come una bellissima musa. Adesso capisco perché tanti artisti e poeti la cantano, tracciandone ogni volta una sfumatura diversa. Le sorrido.

Tutto intorno ci sono piante dalle più bizzarre forme, dimensioni e caratteristiche, simili, a quanto pare, alla gente che vedo con i miei deboli occhi, appesantiti dalla stanchezza del viaggio: si tratta di un gruppo che sembra composto da più famiglie, che si allieta nei pressi di una cascata. Sembrano tutti godersi una piacevole serata al chiaro della prima stella nelle acque di questa sorgente. Ci sono bambini dalle gote e capelli color latte, madri con vitiligine o righe che tracciano deliziosi arabeschi lungo il loro delicato corpo; ancora, alcuni uomini senza arti si divertono schizzandosi a vicenda, mentre creature che non riesco a identificare ridono a crepapelle in risposta al gioco. È affascinante. Terrificante, certo, ma affascinante. Sembra quasi che la varietà sia il valore cardine dell’umanità in questo tratto di terra remoto e ignoto ai più, così importante da fondersi con il corpo degli abitanti che vi risiedono; diversamente da come ci si potrebbe aspettare, tutti loro sono gai e apparentemente noncuranti della loro insolita condizione. Vi è una mescolanza tale di tutti gli aspetti da non riuscire a comprendere quale sia la causa o il fine della metamorfosi. Magari coincidono. Magari no. “È proprio così”, sento dire una voce alle mie spalle. Mi giro di scatto, e i miei occhi si riempiono di una figura femminile di sublime bellezza, circondata da un alone indefinito e con delle ali da falena dietro la schiena. “Sono Yonah, la Prima Madre di tutti che coloro che dimorano a Variante. Siamo tutti diversi, ma ci piace riconoscerci come famiglia. Non so chi tu sia, ma so che finora nessuno straniero è mai riuscito a varcare la Spiaggia Nera senza uscirne morto: questo vuol dire che hai avuto l’umiltà di lasciare indietro tutti i pregiudizi e i dubbi per apprendere, spinta dalla curiosità e dall’attrazione. Hai avuto coraggio, Kora: per questo motivo, adesso ti racconterò una storia, antica come il vento e affascinante come la mente che ti ha portato qui.” Allora cominciammo a camminare verso il vuoto, e io lasciai la mia gente con la sua, affinché imparassero a imparare.

Non so se fosse passato molto tempo o no, ma dopo quello che mi sembrò un infinito istante Yonah cominciò: - “Io e il mio amante approdammo su queste terre molte lune fa, quando ancora le ninfe cantavano poesie per Narciso e io le ascoltavo sulla riva del fiume. Ci eravamo conosciuti per caso, Boris ed io: eravamo ancora ragazzi, ma mi ricordo di aver pensato che quell’elfo sarebbe stato il mio destino. Purtroppo, mio padre aveva altri piani: mi ordinò di sposarmi con Leonida, un suo lontano cugino, per poter avere i suoi castelli in aria e il suo potere di distruzione delle cose. Un potere che passava di generazione in generazione, ma che aveva effetti disastrosi: chi l’avesse posseduto sarebbe soccombuto a qualcosa di estremamente pericoloso. L’unica persona che avrebbe potuto maritarsi con lui sarebbe stata la sua nemesi, una donna che possedesse il dono di infondere la vita e di ridare la speranza: io. Da tempo vedevo come, anche al più leggero tocco delle mie mani, la terra mostrava tutta la sua bellezza con tripudi di fiori, frutta e coltivazioni. Gli animali si affidavano a me nei parti, e i cuccioli che nascevano si rivelavano sani e forti come una roccia; tutta la natura intorno a me cantava le mie magiche doti con sibili della brezza e scroscio di acque torrenziali. Nonostante ciò, dentro di me ero desolata: come potevo sposare qualcuno che non amavo? Era ingiusto sia nei miei confronti, sia nei suoi. Ma poi apparve lui: una mattina d’autunno, decisi di cavalcare per schiarirmi le idee; penso che lui avesse avuto la stessa idea. La prima cosa che notai di lui furono gli occhi: erano color miele, proprio come se le api avessero deciso di creare una mare dentro un’iride. Riflettevano la luce di un timido quarto sole, e mi fissavano impazienti. Non c’era bisogno di parole. Ci buttammo entrambi al galoppo, lui con il suo cervo, io con il mio cavallo. Ci presentammo, ci conoscemmo, ci amammo. Col passare dei giorni pensammo anche di fuggire da quel nefasto luogo, pieno di false aspettative e di futili pensieri. E così fu: una notte bianca, con mio padre che mi urlava e mi malediva alle spalle, ci buttammo in una barca e fuggimmo lontano, così lontano da non sentire neanche le nostre stesse voci uguali. Dopo sessantasette lune gialle, in un passo innevato di non so quale luogo, il mio dolce Boris cadde nella neve, stremato dal freddo a cui lui non era abituato: ero disperata, ma sapevo che c’era qualcosa, oltre tutto quello, che mi stava aspettando. Per certi versi, riuscivo perfino a sentirlo. Così gli diedi un ultimo bacio e lo immersi nell’acqua, cosicché la corrente lo portasse via da quel luogo e io riuscissi a trovare un po’ di pace. Continuai per giorni, mesi, anni, ma alla fine la vidi: sembrava un pezzo di cielo portato in terra, quell’isola, tanto che pensai subito che la voce che da tanto tempo mi chiamava venisse da là. Appena toccai l’umida terra, sentii tutta la forza vitale che mi stava trasmettendo: ricambiai con piacere, e subito essa si arricchì di tutta la flora e la fauna che vedi. Cominciai a sentirmi strana, come se qualcosa dentro di me si fosse sciolto, simile a quel ghiaccio in quel lontano passo innevato: non era qualcosa, bensì qualcuno. Agelada venne al mondo bella e sana come un pesce, ma subito notai che in lei c’era qualcosa di diverso: aveva le stesse orecchie di suo padre, lunghe e affilate, e lungo tutto il corpo macchie marroni e bianche come quelle di una mucca. La seguì Melissa, anch’essa con una carnagione color miele, ma con zaffiri blu al posto di normali occhi bruni; e ancora Delfino, con una cresta che gli percorreva internamente la spina dorsale e mani palmate, ed Ezio, con un becco ricurvo come quello di un’aquila e delle possenti ali, capaci di spostare il vento come i destrieri dei suoi genitori. Col tempo nacquero tanti altri, da me tutti amati e cresciuti. Erano tutti diversi: non avevano tratti che li accomunassero, tanto meno una qualche attitudine simile. Erano liberi e gai, e proprio per questo sono cresciuti pensando che la varietà fosse normale. Vedi, Kora, in fondo siamo tutti distinti: anche nel vostro mondo la gente ha problemi, apparenti o no; ha paure, insicurezze, demoni al loro interno; alcuni hanno malformazioni fisiche o ritardi cognitivi, e voi fate di tutto ciò un problema. Lo ingigantite da un lato e cercate di farvi sempre presente che esiste dall’altro. Noi, al contrario, abbiamo imparato a considerare le imperfezioni che ci contraddistinguono la nostra perfezione. Basta avere umiltà e non giudicare, come te stessa hai fatto camminando sulle pietre, per poi abbandonarsi alla bellezza di ognuno di noi. La mancanza di un arto o di una sensazione in più non cambia niente, ed è un verità che è dura da accettare, ma è pur sempre una verità. Nel nostro mondo viviamo sereni e sorridenti: la nostra vita è cadenzata da momenti diversi come noi, pieni di unicità e di quella fugacità che la morte ci ricorda sempre, nell’inconscio dell’anima. Ci alziamo, scendiamo alla cascata e ci bagnamo delle lacrime di Gaia, la Madre terra. In un secondo momento, ci riuniamo e ci mettiamo in cerchio: i miei figli, i miei nipoti, i miei discendenti tutti ci prendiamo per l'avambraccio e lentamente lasciamo scivolare le mani sul terreno. Tutti loro hanno ereditato il mio dono, la “Bios” offertami dagli antichi: la natura risponde al nostro lieve tocco. Appaiono qua e là fiori di narciso, di rose, di margherite; spuntano dal terreno erbette, eucalipto e salvia; si fanno avanti volpi con pinne di pesce e conigli con orecchie fiammeggianti. Sembra quasi che respiri, la natura, e non ci stanchiamo mai di sentirla. Dopo esserci staccati, ognuno si dedica all’arte, la tecnica, lo studio o il lavoro che preferisce: io intreccio le lunghe chiome di Nea e Medusa, così folte e ricche dell’amore di Boris e mio e sembra quasi palpabile. Gli altri si allettano con il canto, con la cucina, o con balletti che aggradano alla vista non per la delicatezza delle forme, ma per la passione con cui sono svolti. E fino a sera continua così, fino a quando arriva il momento del bagno: è solo al chiarore di luna che infatti riesco a vedere il volto del mio amato. Riesco a sentirne la voce… < Mia cara, dolce Yonah…>. È quasi un sussurro, il suo, ma riesce a infondermi talmente tanta forza da riuscire a continuare anche il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, in un susseguirsi di lune e di soli che ci ha portato a oggi. Che vi ha portato a me.” Annuisco e le sorrido. Forse è perché mi sento diversa anch’io, ma sento di esserle più vicina di quanto non lo sia mai stata con nessun’altra persona. Mi nasconde nel palmo della mano un pezzo di quarzo rosa, come se mi stesse lasciando una parte del suo potere, della sua “Bios”; faccio un grande respiro e chiudo gli occhi… magari la varietà fosse la nuova normalità. Casco in un sonno profondo, serafico come l’isola e paziente come la Prima Madre… "Sara, svegliati, è ora di andare a scuola”. Cosa? Apro gli occhi e davanti a me non c’è più Yonah, ma mia madre che mi scruta con occhio osservatore. “Ho detto che è ora di muoversi, pigrona!” Come? E l’isola? La mia bellissima isola, dov’è finita? Non so nemmeno se tutto quello che ho visto sia vero, a dirla tutta… è in quel momento che, mettendo le ultime cose nella cartella, la vedo: una piccola pietra preziosa color carne. Mi sta fissando, è chiaro. O magari sono io che sto fissando lei. Non capisco più nulla, ma mi sento invasa da un dubbio quasi esistenziale. E se… Sorrido e mi avvio verso la porta. Mamma mi saluta dall’uscio: - “Tesoro?”,

-“Hm?”,

-“Hai gli stessi occhi color miele di tuo padre.”



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